Quando, per ricevere la corona d'alloro, costume rinnovato dagli
antichi Romani, Francesco Petrarca pospone Parigi e Napoli a Roma,
il pensiero che lo guida non è, come a prima giunta potrebbe parere,
un pensiero nuovo, proprio dell'umanista, ma è anzi un pensiero
vecchio, familiare a tutto il medio evo, e solo ritemperato nella nuova
coltura.
Se non che le voci che nella età di mezzo suonano intorno a Roma,
non tutte sono di ammirazione e di lode. A fianco della Roma antica
che vive nella memoria degli uomini, c'è la Roma Nuova, la Roma dei
papi, che vive nella realtà delle cose, e quanto quella sembra degna
di gloria, tanto questa, a molti, sembra degna d'infamia. Se alcuni
uomini religiosi si sgomenteranno di certi ricordi, e imprecheranno ai
poeti e ai filosofi pagani, molti più s'adonteranno delle vergogne
onde Roma papale è fatta turpe ricettacolo, e malediranno alla
corruzione della Chiesa. Quello stesso Alessandro Neckam che
abbiam veduto celebrare in versi traboccanti di nobile entusiasmo la
Roma degli Scipioni e di Cesare, così, in alcuni altri versi, parla della
Roma dei pontefici
[72]:
Roma, vale, papam, dominos quoque cardines orbis,
Romulidasque tuos opto valere, vale.
Roma, vale, numquam dicturus sum tibi, salve;
Compressas valles diligo; Roma, vale
Roma, Jovis montes, alpes nive semper amictas,
Hannibalisque vias horreo; Roma, vale.
Includi claustro, privatam ducere vitam,
Opto; me terret curia; Roma, vale.
Romae puid facerem? mentiri nescio, libros
Diligo, sed libras respuo; Roma, vale.
Numquid adulabor? faciem jam ruga senilis
Exarat, invitus servio; Roma, vale.
Mausolea mihi non quaero, pyramidasve,
Glebae contentus gramine; Roma, vale.
Respuo delicias tantas, tantosque tumultus;
Cornutas frontes horreo; Roma, vale.