banchetti a ogni momento. Lo chiamavano il «duca-cuoco».
Specialmente le donne, come avviene nei sùbiti mutamenti politici, si
esaltarono. Si accendevano a quella fantasmagoria di colori, al
chiasso dei soldati francesi, di quei
Quatter strascion senza camisa,
Senza sciopp, senza divisa,
Senza scarp, senza calzett,
ma pieni di vita, di brio indiavolato. Un'altra satira cantava con
verità:
Esopo dì che, in sto pajes,
In staa prima i donn
A portà l'eguaglianza di Franzes.
[9]
Le vie, prima tranquille, erano messe a rumore. In piazza del
Duomo, e in altre piazze, al suono delle bande s'inaugurarono gli
«alberi della Libertà», sormontati da un berretto frigio rosso. E allora
si videro le scene più sfrenate, più sconce, che si potessero ideare.
Fratacci e pretacci appesero all'albero le loro lunghe barbe tagliate e
le loro tonache, e, intorno, uomini e donne discinte, in catena, si
trascinavano ballando e urlando: Viva l'eguaglianza! Si videro signore
di liberi costumi, mezzo denudate, ballare trascinate da demagoghi
furibondi: sì, signore, anche belle, formose, che apparivano pure,
mezzo nude, secondo l'ultimo figurino di moda, nelle loro loggie al
teatro della Scala, dove la Marsigliese si suonava e cantava in coro.
In piazza della Rosa si tenevano riunioni demagogiche
clamorosissime, con urli di morte al papa, ai cardinali, ai vescovi e
arcivescovi, preti, frati.... Una ragazza, Sangiorgio, figlia d'un
chimico, offerse la propria mano a chi le avesse portato la testa del
papa. «In quel club (narrava nei suoi tardi anni il Manzoni, nel
crocchio della sera fra intimi amici, alludendo alla Società popolare di
via Rugabella), in quel club se ne dicevano e proponevano delle
belle! C'era, tra gli altri, la demagoga Sopransi, che era brutta e
gobba, ma rivoluzionaria ardente e anzi pazza: e un giorno, in odio