Tutt'al più era detto per celia, il rimanente sul serio, e mia moglie
l'aveva inteso alla prima, senza altro commento fuor quello degli
avvenimenti della vigilia.
Una mattina era arrivata la prima lettera di Laura sposa; aspettata
con ansia, letta con trepidanza, quella lettera, dettata dal nuovo
amore di moglie e dal vecchio amore di figlia, ci diceva felicità che
noi conoscevamo.
E un altro giorno erano finalmente arrivati gli sposi medesimi, che,
con un inganno dolcissimo, ci erano piombati in casa ventiquattro
ore prima dell'ora prefissa: quel ritorno non somigliava
menomamente a un altro; mancavano gli indifferenti, mancavano i
via vai delle carrozze e la voce rauca che gridava le gazzette del
giorno innanzi. E pure a me, a Evangelina, e probabilmente anche a
mio suocero, ne ricordava un altro: il nostro.
Il nonno non aveva dimenticato la sua parte: egli girava in salotto
attorno a Laurina con la stessa curiosità maliziosa con cui
venticinque anni prima, alla stazione, aveva fatto arrossire sua figlia.
Ecco un'altra porzione del nostro passato che ci veniva restituita.
Poi era venuta l'ora di separarci un'altra volta dai nostri figli, poichè
l'università di Pavia voleva il suo professore e il suo studente, e il
professore non era disposto a rendere la propria preda.
Mio suocero un po' imbronciato, non così per la partenza dei nipotini,
come per non avere ancora potuto fare la minima scoperta sicura nel
bagaglio degli sposi — egli diceva propriamente bagaglio — per
consolarci dell'abbandono in cui eravamo lasciati, non sapeva far
altro che dirci:
— Ora lo dovete intendere che cosa significa avere cuore di padre;
quando mi piantavate in Monza per venirvene a Milano, non lo
sospettavate neppure... la gran lezione ce la dànno i figli.
Sì, la gran lezione ce la dànno i figli; essi ci ridanno il meglio di noi
stessi, ci rivelano i genitori nostri, ci riconducono così fino alla
sorgente degli affetti!