La vita del vecchio agitatore, ne' 27 anni decorsi dal 1626 al 1647,
era passata tra le angustie e gli stenti del carcere, e tra le liti e le
molestie procacciategli dalla sua indole turbolenta, e dalle
persecuzioni de' nobili, suoi antichi nemici. Carcerato in Ispagna,
ove, dopo la caduta dell'Ossuna erasi condotto, e, con sentenza de'
28 Settembre 1620, condannato in Napoli alla forgiudica
[181], egli
nel 1621 aveva ottenuto da re Filippo IV, con dispaccio de' 18
novembre, che il suo giudizio fosse in Napoli stesso riveduto
[182]. Ed
infatti una Giunta speciale composta del licenziato Francesco Antonio
d'Alarcon, cavaliere dell'abito di S. Giacomo, commissario delegato
del re, e da quattro giudici scelti ne' tribunali del regno, intese
novellamente il Genoino trasportato prima a Baia e poscia a
Capua
[183]. Ma il secondo giudizio non fu molto diverso dal primo,
ed egli fu condannato a carcere perpetuo in qualche castello
appartenente alla Corona di Spagna, che non fosse nel regno; e, per
ordine del re, in data de' 22 ottobre 1622, gli fu assegnata la
fortezza del Pignone in Africa. Così visse ivi più o meno strettamente
per 12 anni, sinchè, avendo mandato alla Corte il modello in legno
della fortezza
[184] ove stava rinchiuso, ottenne dal re la grazia della
libertà: mediante il pagamento di 4000 ducati, e coll'obbligo di
restare in qualche luogo dell'Andalusia o di Castiglia o confine. La
carta con cui gli fu partecipata la grazia sovrana, è del 12 febbraio
1634
[185]. Se non che, dopo alcuni anni, il Genoino ritornò in Napoli,
ove, rinfocolati gli odii antichi, e suscitati nuovi sospetti, a' 2 Ottobre
del 1639, ad istanza degli Eletti della città, fu per estranee cagioni
sostenuto per qualche tempo nel Castel Nuovo
[186]. Allora vedendo,
come egli stesso dice, “la sua persecuzione dello stato secolare, e
che dove meritava premio, gli si era data pena, risolse, nel residuo
della sua vecchiezza, servire Dio in istato di sacerdote, e con Breve
apostolico, prese gli ordini sacri, servando tutte le sacre costituzioni
e le prescrizioni del Concilio di Trento, per mano di D. Basilio Cacace,
arcivescovo di Efeso
[187]„.
In queste nuove condizioni di vita ritrovavasi, allorchè la imposizione
della gabella sui frutti, che egli più che altra riconosceva odiosa al
popolo, venne a rinnovellare le sue antiche speranze. Ne' primi mesi