Dante Alighieri 2 - poesia e commedia 2

SebastianoCaltabiano1 41 views 6 slides Sep 08, 2025
Slide 1
Slide 1 of 6
Slide 1
1
Slide 2
2
Slide 3
3
Slide 4
4
Slide 5
5
Slide 6
6

About This Presentation

Dante Alighieri - poesia e commedia


Slide Content

Dante Alighieri Lo scontro con Bonifacio VIII (1300) Sentenza dell'esilio di Dante, in una copia post 1465 Nell'anno 1300, Dante fu eletto uno dei sette priori per il bimestre 15 giugno- 15 agosto[75][81]. Nonostante l'appartenenza al partito guelfo, egli cercò sempre di osteggiare le ingerenze del suo acerrimo nemico papa Bonifacio VIII, dal poeta intravisto come supremo emblema della decadenza morale della Chiesa. Con l'arrivo del cardinale Matteo d'Acquasparta, inviato dal pontefice in qualità di paciere (ma in realtà spedito per ridimensionare la potenza dei guelfi bianchi, in quel periodo in piena ascesa sui neri[82][83]), Dante riuscì ad ostacolare il suo operato. Sempre durante il suo priorato, Dante approvò il grave provvedimento con cui furono esiliati, nel tentativo di riportare la pace all'interno dello Stato, otto esponenti dei guelfi neri e sette di quelli bianchi, compreso Guido Cavalcanti[84] che di lì a poco morirà in Sarzana. Questo provvedimento ebbe serie ripercussioni sugli sviluppi degli eventi futuri: non solo si rivelò una disposizione inutile (i guelfi neri temporeggiarono prima di partire per l'Umbria, il posto destinato al loro confino)[85], ma fece rischiare un colpo di Stato da parte dei guelfi neri stessi, grazie al segreto supporto del cardinale d'Acquasparta[85]. Inoltre, il provvedimento attirò sui suoi fautori (incluso Dante stesso) sia l'odio della parte nera che la diffidenza degli "amici" bianchi: i primi, ovviamente, per la ferita inferta; i secondi, per il colpo dato al loro partito da parte di un suo stesso membro. Nel frattempo, le relazioni tra Bonifacio e il governo dei bianchi peggiorarono ulteriormente a partire dal mese di settembre, allorché i nuovi priori (succeduti al collegio di cui fece parte Dante) revocarono immediatamente il bando per i bianchi[85], mostrando la loro partigianeria e dando così al legato papale cardinale d'Acquasparta modo di scagliare l'anatema su Firenze[85]. In vista dell'invio di Carlo di Valois a Firenze, mandato dal papa come nuovo paciere (ma di fatto conquistatore) al posto del cardinale d'Acquasparta, la Repubblica spedì a Roma, nel tentativo di distogliere il papa dalle sue mire egemoniche, un'ambasceria di cui faceva parte essenziale anche Dante, accompagnato da Maso Minerbetti e da Corazza da Signa[82]. L'inizio dell'esilio (1301- 1304) Carlo di Valois e la caduta dei bianchi Tommaso da Modena, Benedetto XI, affresco, anni '50 del XIV secolo, Sala del Capitolo, Seminario di Treviso. Il beato papa Boccasini, trevigiano, nel suo breve pontificato cercò di riportare la pace all'interno di Firenze, inviando il cardinale Niccolò da Prato come paciere. È l'unico pontefice su cui Dante non proferì alcuna condanna, ma neanche verso il quale manifestò pieno apprezzamento, tanto da non comparire nella Commedia[86]. Dante si trovava quindi a Roma[87], sembra trattenuto oltre misura da Bonifacio VIII[88], quando Carlo di Valois entrò a Firenze il giorno di Ognissanti del 1301.[89] Questi, al primo subbuglio cittadino, prese pretesto per far arrestare i capi dei guelfi bianchi con un colpo di mano, mentre i guelfi neri, tornati in città, scatenavano la loro vendetta contro gli avversari politici con assassini e incendi[90]. Il 9 novembre 1301 i nuovi padroni di Firenze imposero alla suprema magistratura, quella di podestà, Cante Gabrielli da Gubbio[89], il quale apparteneva alla fazione dei guelfi neri della sua città natia e diede inizio a una politica di sistematica persecuzione degli esponenti politici di parte bianca ostili al papa, fatto che si risolse alla fine nella loro uccisione o nell'espulsione da Firenze.[75] A seguito di un processo istruito dal giudice Paolo da 7

8 Gubbio per il crimine di baratteria, Dante (considerato reo confesso in quanto contumace) venne condannato dal podestà Gabrielli dapprima, il 27 gennaio 1302, alla confisca delle proprietà, e successivamente, il 10 marzo, al rogo[91]. Da quel momento, Dante non rivide più la sua patria. «Alighieri Dante è condannato per baratteria, frode, falsità, dolo, malizia, inique pratiche estortive, proventi illeciti, pederastia, e lo si condanna a 5000 fiorini di multa, interdizione perpetua dai pubblici uffici, esilio perpetuo (in contumacia), e se lo si prende, al rogo, così che muoia”» (Libro del chiodo - Archivio di Stato di Firenze - 10 marzo 1302[92]) I tentativi di rientro e la battaglia di Lastra (1304) Dopo i falliti tentati colpi di mano del 1302, Dante, in qualità di capitano dell'esercito degli esuli, organizzò insieme a Scarpetta Ordelaffi, capo del partito ghibellino e signore di Forlì (presso il quale Dante si era rifugiato)[93][N 4], un nuovo tentativo di rientrare a Firenze. L'impresa fu però sfortunata: il podestà di Firenze, Fulcieri da Calboli (un altro forlivese, nemico degli Ordelaffi), riuscì ad avere la meglio nella battaglia nei pressi del castello di Pulicciano, nei pressi di Arezzo[94]. Fallita anche l'azione diplomatica, nell'estate del 1304, del cardinale Niccolò da Prato[95], legato pontificio di papa Benedetto XI (sul quale Dante aveva riposto molte speranze)[96][97], il 20 luglio dello stesso anno i bianchi, riuniti alla Lastra, una località a pochi chilometri da Firenze, decisero di intraprendere un nuovo attacco militare contro i neri[98]. Dante, ritenendo corretto aspettare un momento politicamente più favorevole, si schierò contro l'ennesima lotta armata, trovandosi in minoranza al punto che i più intransigenti formularono su di lui dei sospetti di tradimento; pertanto decise di non partecipare alla battaglia e di prendere le distanze dal gruppo. Come preventivato dallo stesso, la battaglia di Lastra fu un vero e proprio fallimento con la morte di quattrocento uomini fra ghibellini e bianchi[98]. Il messaggio profetico ci arriva da Cacciaguida: «Di sua bestialitate il suo processo farà la prova; sì ch'a te fia bello averti fatta parte per te stesso.» (Paradiso XVII, vv. 67- 69) La prima fase dell'esilio (1304-1310) Tra Forlì e la Lunigiana dei Malaspina Il castello- palazzo vescovile di Castelnuovo dove Dante nel 1306 pacificò i rapporti tra i Marchesi Malaspina e i Vescovi- Conti di Luni Dante fu, dopo la battaglia della Lastra, ospite di diverse corti e famiglie della Romagna, fra cui gli stessi Ordelaffi. Il soggiorno forlivese non durò a lungo, in quanto l'esule si spostò prima a Bologna (1305), poi a Padova nel 1306 e infine nella Marca Trevigiana[57] presso Gherardo III da Camino[99]. Da qui, Dante fu chiamato in Lunigiana da Moroello Malaspina (quello di Giovagallo, visto che più membri della famiglia portavano questo nome)[100], col quale il poeta entrò forse in contatto grazie a un amico comune, il poeta Cino da Pistoia[101]. In Lunigiana (regione in cui giunse nella primavera del 1306), Dante ebbe l'occasione di negoziare la missione diplomatica per un'ipotesi di pace tra i Malaspina, «potenti in un'ampia zona di passaggio fra la Riviera di Levante, l'Appennino e la pianura padana, da Bocca di Magra su per la Lunigiana e

9 il passo della Cisa fino al Piacentino»[102], e il vescovo- conte di Luni, Antonio Nuvolone da Camilla (1297 – 1307)[103]. In qualità di procuratore plenipotenziario dei Malaspina, Dante riuscì a far firmare da ambo le parti la pace di Castelnuovo del 6 ottobre del 1306[58][103], successo che gli fece guadagnare la stima e la gratitudine dei suoi protettori. L'ospitalità malaspiniana è celebrata nel Canto VIII del Purgatorio, dove al termine del componimento Dante formula alla figura di Corrado Malaspina il Giovane l'elogio del casato[104]: «[...] e io vi giuro.../... che vostra gente onrata.../ sola và dritta e 'l mal cammin dispregia.» (Pg VIII, vv. 127- 132) Nel 1307[105], dopo aver lasciato la Lunigiana, Dante si trasferì nel Casentino, dove fu ospite, secondo Boccaccio[106], di Guido Salvatico dei conti Guidi, conti di Battifolle e signori di Poppi, presso i quali iniziò a stendere la cantica dell'Inferno[58]. La discesa di Arrigo VII (1310- 1313) Monumento a Dante Alighieri a Villafranca in Lunigiana presso la tomba sacello dei Malaspina François-Xavier Fabre, Ritratto di Ugo Foscolo, pittura, 1813, Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze Il Ghibellin fuggiasco Il soggiorno nel Casentino durò pochissimo tempo: tra il 1308 e il 1310 si può infatti ipotizzare che il poeta risiedesse prima a Lucca e poi a Parigi, anche se non è possibile valutare con certezza il soggiorno transalpino come già precedentemente esposto: Barbero, raccogliendo le testimonianze sia dei primi commentatori di Dante che di quelli successivi, pensa che al massimo il poeta possa essersi spinto fino alla corte papale di Avignone, pur sottolineando che questa sia solo una mera ipotesi poco fondata[107]. Dante, molto più probabilmente, si trovava a Forlì nel 1310[105], dove ebbe la notizia, nel mese di ottobre[58], della discesa in Italia del nuovo imperatore Arrigo VII, succeduto ad Alberto I d'Asburgo morto assassinato il 1º maggio del 1308[108]. Dante guardò a quella spedizione con grande speranza, in quanto vi intravedeva non soltanto la fine dell'anarchia politica italiana[N 5], ma anche la concreta possibilità di rientrare finalmente a Firenze[58]. Infatti l'imperatore fu salutato dai ghibellini italiani e dai fuoriusciti politici guelfi, connubio che spinse il poeta ad avvicinarsi alla fazione imperiale italiana capeggiata dagli Scaligeri di Verona[109]. Dante, che tra il 1308 e il 1311 stava scrivendo il De Monarchia, manifestò le sue aperte simpatie imperiali, scagliando una violenta lettera contro i fiorentini il 31 marzo del 1311[58], unici tra i Comuni italiani a non aver inviato dei propri rappresentanti a Losanna per omaggiare l'imperatore[110], e giungendo, sulla base di quanto affermato nell'epistola indirizzata ad Arrigo VII, a incontrare l'imperatore stesso in un colloquio privato[111]. Non sorprende, pertanto, che Ugo Foscolo giungerà a definire Dante come un ghibellino: «E tu prima, Firenze, udivi il carme Che allegrò l’ira al Ghibellin fuggiasco.» (Ugo Foscolo, Dei sepolcri, vv. 173- 174)

10 Nel frattempo Arrigo, dopo aver risolto dei problemi nel Nord Italia, si diresse a Genova e da lì a Pisa[N 6], sua grande sostenitrice: è possibile che Dante fosse al suo seguito[112]. Nel 1312, dopo essere stato incoronato nella Basilica del Laterano dal legato papale Niccolò da Prato il 1º agosto 1312, l'imperatore assediò Firenze dal 19 settembre fino al 1º novembre senza ottenere la sudditanza della città toscana[113]. Il sogno dantesco di una Renovatio Imperii si infrangerà il 24 agosto del 1313, quando l'imperatore venne a mancare, improvvisamente, a Buonconvento[114]. Se già la morte violenta di Corso Donati, avvenuta il 6 ottobre del 1308 per mano di Rossellino Della Tosa (l'esponente più intransigente dei guelfi neri)[105], aveva fatto crollare le speranze di Dante[N 7], la morte dell'imperatore diede un colpo mortale ai tentativi del poeta di rientrare definitivamente a Firenze[105]. Busto di Dante Alighieri presso il Castello di Poppi Gli ultimi anni Cangrande della Scala, in un ritratto immaginario del XVII secolo. Abilissimo politico e grande condottiero, Cangrande fu mecenate della cultura e dei letterati in particolare, stringendo amicizia con Dante. Il soggiorno veronese (1313- 1318) Lo stesso argomento in dettaglio: Della Scala. All'indomani della morte improvvisa dell'imperatore, Dante accolse l'invito di Cangrande della Scala a risiedere presso la sua corte di Verona[58]. Dante aveva già avuto modo, in passato, di risiedere nella città veneta, in quegli anni nel pieno della sua potenza. Petrocchi, come delineato prima nel suo saggio Itinerari danteschi e poi nella Vita di Dante[115] ricorda come Dante fosse già stato ospite, per pochi mesi tra il 1303 e il 1304, presso Bartolomeo della Scala, fratello maggiore di Cangrande. Quando poi Bartolomeo morì, nel marzo del 1304, Dante fu costretto a lasciare Verona in quanto il suo successore, Alboino, non era in buoni rapporti col poeta[116]. Alla morte di Alboino, il 29 novembre 1311[117], divenne suo successore il fratello Cangrande[118], tra i capi dei ghibellini italiani e protettore (oltreché amico) di Dante[118]. Fu in virtù di questo legame che Cangrande chiamò a sé l'esule fiorentino e i suoi figli Pietro e Jacopo, dando loro sicurezza e protezione dai vari nemici che si erano fatti negli anni. L'amicizia e la stima tra i due uomini fu tale che Dante esaltò, nella cantica del Paradiso – composta per la maggior parte durante il soggiorno veronese –, il suo generoso patrono in un panegirico per bocca dell'avo Cacciaguida: «Lo primo tuo refugio e 'l primo ostello sarà la cortesia del gran Lombardo che 'n su la scala porta il santo uccello; ch'in te avrà sì benigno riguardo, che del fare e del chieder, tra voi due, fia primo quel che tra l'altri è più tardo [...]

11 Le sue magnificenze conosciute saranno ancora, sì che' suoi nemici non ne potran tener le lingue mute. A lui t’aspetta e a’ suoi benefici; per lui fia trasmutata molta gente, cambiando condizion ricchi e mendici;» (Paradiso XVII, vv. 70- 75, 85- 90) Nel 2018 è stata scoperta da Paolo Pellegrini, docente dell'Università di Verona, una nuova lettera, scritta probabilmente proprio da Dante nel mese di agosto del 1312 e spedita da Cangrande al nuovo imperatore Enrico VII; essa modificherebbe sostanzialmente la data del soggiorno veronese del poeta, anticipando il suo arrivo al 1312, ed escluderebbe le ipotesi che volevano Dante a Pisa o in Lunigiana tra il 1312 ed il 1316[119]. Il soggiorno ravennate (1318- 1321) Andrea Pierini, Dante legge la Divina Commedia alla corte di Guido Novello, 1850, dipinto a olio, Palazzo Pitti-Galleria D'Arte Moderna, Firenze Dante, L'arzana de' Veneziani Dante, per motivi ancora sconosciuti, si allontanò da Verona per approdare, nel 1318, a Ravenna, presso la corte di Guido Novello da Polenta, uomo «poco più giovane di Dante...[che] apparteneva a quella grande aristocrazia dell'Appennino che da tempo stava imponendo il suo dominio sui Comuni della Romagna»[120]. I critici hanno cercato di comprendere le cause dell'allontanamento di Dante dalla città scaligera, visti gli ottimi rapporti che intercorrevano tra Dante e Cangrande. Augusto Torre ipotizzò una missione politica a Ravenna, affidatagli dallo stesso suo protettore[121]; altri pongono le cause in una crisi momentanea tra Dante e Cangrande, oppure nell'attrattiva di far parte di una corte di letterati tra i quali il signore stesso (cioè Guido Novello), che si professava tale[122]; ancora, chi pensa che Dante, uomo fiero e indipendente, resosi conto di essere diventato un cortigiano a tutti gli effetti, preferì prendere congedo dagli Scaligeri[123]. Tuttavia, i rapporti con Verona non cessarono del tutto, come testimoniato dalla presenza di Dante nella città veneta il 20 gennaio 1320, per discutere la Quaestio de aqua et terra, l'ultima sua opera latina[124]. Gli ultimi tre anni di vita trascorsero relativamente tranquilli nella città romagnola, durante i quali Dante creò un cenacolo letterario frequentato dai figli Pietro e Jacopo[62][125] e da alcuni giovani letterati locali, tra i quali Pieraccio Tedaldi e Giovanni Quirini[126]. Per conto del signore di Ravenna svolse occasionali ambascerie politiche[127], come quella che lo condusse a Venezia. All'epoca, la città lagunare era in attrito con Guido Novello a causa di attacchi continui alle sue navi da parte delle galee ravennati[128] e il doge, infuriato, si alleò con Forlì per muovere guerra a Guido Novello; questi, ben sapendo di non disporre dei

12 mezzi necessari per fronteggiare tale invasione, chiese a Dante di intercedere per lui davanti al Senato veneziano. Gli studiosi si sono domandati perché Guido Novello avesse pensato proprio all'ultracinquantenne poeta come suo rappresentante: alcuni ritengono che sia stato scelto Dante per quella missione in quanto amico degli Ordelaffi, signori di Forlì, e quindi in grado di trovare più facilmente una via per comporre le divergenze in campo[129]. La morte e i funerali L'ambasceria di Dante sortì un buon effetto per la sicurezza di Ravenna, ma fu fatale al poeta che, di ritorno dalla città lagunare, contrasse la malaria mentre passava dalle paludose Valli di Comacchio[105]. Le febbri portarono velocemente il poeta cinquantaseienne alla morte, che avvenne a Ravenna nella notte tra il 13 e il 14 settembre 1321[105][130]. I funerali, in pompa magna, furono officiati nella chiesa di San Pier Maggiore (oggi San Francesco) a Ravenna, alla presenza delle massime autorità cittadine e dei figli[131]. La morte improvvisa di Dante suscitò ampio rammarico nel mondo letterario, come dimostrato da Cino da Pistoia nella sua canzone Su per la costa, Amor, de l'alto monte[132]. Le spoglie mortali Le "tombe" di Dante Lo stesso argomento in dettaglio: Tomba di Dante. La tomba di Dante a Ravenna, realizzata da Camillo Morigia Dante trovò inizialmente sepoltura in un'urna di marmo posta nella chiesa ove si tennero i funerali[133]. Quando la città di Ravenna passò poi sotto il controllo della Serenissima, il podestà Bernardo Bembo (padre del ben più celebre Pietro) ordinò all'architetto Pietro Lombardi, nel 1483, di realizzare un grande monumento che ornasse la tomba del poeta[133]. Ritornata la città, al principio del XVI secolo, agli Stati della Chiesa, i legati pontifici trascurarono le sorti della tomba di Dante, la quale cadde presto in rovina. Nel corso dei due secoli successivi furono compiuti solo due tentativi per porre rimedio alle disastrose condizioni in cui il sepolcro versava: il primo fu nel 1692, quando il cardinale legato per le Romagne Domenico Maria Corsi e il prolegato Giovanni Salviati, entrambi di nobili famiglie fiorentine, provvidero a restaurarla[134]. Nonostante fossero passati pochi decenni, il monumento funebre fu rovinato a causa del sollevamento del terreno sottostante la chiesa, cosa che spinse il cardinale legato Luigi Valenti Gonzaga a incaricare l'architetto Camillo Morigia, nel 1780, di progettare il tempietto neoclassico tuttora visibile[133].
Tags