pettorali degli avvoltoi che avea veduto piombarsi dalle rocce del
Mokattam o aggirarsi su l'acquitrino di Sakha.
«Fratello, fratello, siamo solitarii, siamo liberi, siamo lontani dalla
terra tormentosa!» pensava Paolo Tarsis che, avendo già compiuto il
primo giro, veniva sopravvento al suo compagno per raggiungerlo.
«Non voglio più esser triste, non voglio più divorarmi il cuore, non
voglio più nasconderti il mio supplizio. Ho bisogno di chiamarti, di
gittarti il mio grido, di riudire la tua voce nel volo. Se tu vinci, io
vinco. Se io vinco, tu vinci. Com'è virile il cielo, oggi!»
Egli lasciava dietro di sé la turbolenza della sua passione, il riso
agitante d'Isabella, lo sguardo febrile e ostile dell'adolescente, la
vanità delle amiche, la stupidità degli accompagnatori, tutto quello
stuolo intruso che l'aveva assalito e oppresso. Ritrovava il suo
silenzio, il suo deserto, il suo cómpito.
— Àrdea!
Mille e mille voci conclamavano il bel nome laziale. Dalle tribune,
dagli steccati, dai carri fermi su la strada di Calvisano, su la strada di
Montichiari, su i crocicchi delle strade candide, dai grappoli umani
appesi agli alberi di confine, dai mucchi nereggianti su i colmigni
delle cascine, dall'immensa moltitudine di fronti alzate verso le vie
divine, dall'innumerabile meraviglia saliva il clamore come un tuono
o come un fiotto intermessi.
— Àrdea!
Paolo Tarsis raggiungeva il compagno, gli passava a portata di voce,
era preso nel vortice dell'elica gemella, sbandava, rullava, guizzava
fuor della rotta, scivolava con la velocità del vespiere, piombava a un
tratto come l'astore, risaliva quasi verticalmente come il germano,
mostrava contro il fulgore le nervature delle sue tele, virava intorno
all'asta della mèta così stretto da radere con l'ala inflessa la punta
della fiamma ondeggiante. Egli aveva gittato verso il compagno il
grido di riconoscimento e di allarme, consueto a entrambi nelle
scorrerie nelle cacce nei bivacchi. Gli era giunto? La risposta s'era
perduta nel rombo?
À