Non aveva che dieci anni più di Laurina; era alto, snello e bruno;
portava i baffi e la mosca, e fra i baffi e la mosca un sorriso in cui si
leggeva la sua anima buona. Apparteneva a una eccellente famiglia
borghese, e un po' di ben di Dio al sole non gli mancava; più che
d'altro era ricco della volontà, che insegue la fortuna, della
perseveranza che la raggiunge, della prudenza che, raggiuntala, non
se la lascia sfuggire di mano, dell'amore che raddoppia ogni
ricchezza divisa.
Sì, era innamorato e non si poteva lagnare, perchè era anche
corrisposto.
Si dovevano sposare fra dieci anni o dodici, una bella mattina di
maggio, prima dinanzi al Sindaco, poi in chiesa; e appena sposati se
ne andrebbero per l'Italia, coi treni diretti, per ritornare un mese
dopo a Milano più innamorati di prima.
Lo conoscevo, gli volevo bene, me n'ero fatto un amico, e chiamavo
lui pure: «mio figlio»; ma non perciò quel fantasma di genero
diventava importuno.
Solo nelle ore di ozio di suo suocero, egli veniva qualche volta a
fargli visita, e appena si annunciava un cliente o appariva un usciere,
se ne andava alla chetichella. Poi le sue visite si vennero facendo
tanto più rare e fuggitive, quanto più il tempo dell'avvocato Placidi
diventava prezioso.
E un giorno, in un viale dei pubblici giardini, mentre io me n'andava
superbamente a spasso, con mia figlia a braccetto, egli mi disse un
«addio» melanconico, e mi voltò le spalle per sempre.
Quella scena mi sta sempre dinanzi agli occhi.
Io mi vedo dunque con la mia Laurina a braccetto, in un viale dei
pubblici giardini, poco prima dell'imbrunire. Ho la testa in
processione, non penso a nulla: cioè no, penso che sono contento di
me, che mi è finalmente riuscito di sfuggire ai miei clienti, i quali mi
seguirebbero volentieri da per tutto, alle preture, in tribunale, in
appello, in cassazione, alla passeggiata, all'inferno; penso che
comincio a mettere pancia, ma senza ombra di rammarico, perchè