al campo (…) Più queste dimostrazioni erano false, più si sbracciavano a darle (…) Questi esigevano la morte di Mario Celso,
console designato e amico fedele di Galba fino all’ultimo, per odio alla sua efficienza e integrità, qualità criminose ai loro occhi.
L’obiettivo era chiaro: non cercavano che un pretesto per cominciare il massacro, il saccheggio, l’eliminazione di tutti i cittadini
onesti. Otone non aveva ancora il prestigio per impedire tale nefandezza, ma solo per ordinarla. Così, fingendosi invaso dall’ira, ne
ordinò l’arresto (…) Da quel momento tutto fu in balia dei soldati (…) L’ultima aberrazione di quella giornata trascorsa all’insegna
del delitto fu l’esultanza (…) Viene conferita a Otone la potestà tribunizia, il nome di Augusto e tutti gli onori imperiali, in mezzo
allo sforzo generale di far dimenticare i sarcasmi e gli insulti che da più parti, fino a poco prima, gli avevano rovesciato addosso; e
non c’era nessuno che si rendesse conto di come invece si erano impressi nel suo animo. La brevità del suo impero non ha consentito
di chiarire se queste offese le abbia lasciate cadere o se avesse solo rimandato la vendetta. Otone passò in mezzo al foro ancora
coperto di sangue tra i cadaveri là distesi e, portato in Campidoglio e di lì al Palazzo, consentì finalmente che i corpi fossero sepolti o
cremati. Quello di Pisone fu composto dalla moglie Verania e dal fratello Scriboniano, quello di Tito Vinio dalla figlia Crispina, ma
dovettero prima cercare di riscattare le teste che gli assassini si erano tenute per farne mercato (…) Sul cadavere di Galba,
abbandonato per ore, s’eran sfogati, approfittando del buio, in scempi d’ogni sorta (…) La testa, straziata e infilata da cuochi e
facchini su una picca (…) Questa la fine di Servio Galba che, in settantatré anni aveva attraversato, senza disavventure, cinque
principati, più fortunato sotto l’impero di altri che nel proprio (…) Il fatto che le due figure più abbiette per mancanza di senso
morale e di energia, oltre che per dissolutezza fossero state per fatalità scelte, se così si può dire, a rovinare l’impero, gettava in
evidente costernazione (…) Si poteva avere quest’unica certezza, che avrebbe vinto il peggiore (…)Otone ridusse alla calma quanti
non poteva costringere all’ordine. Tuttavia la tranquillità non era tornata a Roma: rumore d’armi ovunque, in un’atmosfera di guerra;
non più assembramenti di militari in piazza a provocare disordini, ma soldati infiltrati, travestiti, spiavano, nelle case private, quanti o
la nobiltà o la ricchezza o un qualche motivo di prestigio e notorietà esponeva alle chiacchiere della strada. E aveva credito la voce di
soldati vitelliani giunti a Roma a verificare le simpatie di cui godevano. Sicché a tutti si appiccava il sospetto e a stento l’intimità
della casa si salvava dalla paura. Ma soprattutto colpiva, nelle strade, lo smarrimento. Qualsiasi notizia arrivasse, la gente controllava
le reazioni dell’animo e del volto per non farsi vedere scoraggiata, se brutte, o troppo festosa, se buone. Ardua impresa poi per il
senato, convocato nella curia, trovare il tono giusto, tra un silenzio insolente e una franchezza sospetta; tanto più che a Otone, privato
cittadino fino a poc’anzi, era ben noto, per averlo sperimentato, il linguaggio dell’adulazione. Perciò, poiché si doveva dichiarare
Vitellio nemico e traditore della patria, si accavallavano pareri ed emendamenti di ogni tipo: i più cauti si contentavano di attacchi
banali, altri lanciavano pesanti e fondati accuse, però quando tanti parlavano e in mezzo al vociare, oppure coprendo essi stessi la
propria voce nella confusione degli interventi (…) Le fragorose acclamazioni della folla, per l’acquisito istinto all’adulazione,
suonavano eccessive e false (…) né già per paura o vero affetto ma per gusto di servilismo: come accade tra schiavi, ciascuno
pensava al proprio personale interesse (…) Nelle guerre civili non esiste una vera unione possibile tra vincitori e vinti ed era
assolutamente indifferente che la fortuna facesse sopravvivere allo scontro Vitellio oppure Otone. Il successo rende insolenti anche i
migliori comandanti; nel caso di quei due, già vittime della discordia delle loro truppe, della propria inefficienza e dissolutezza, oltre
che dei vizi loro personali, non potevano che finire l’uno distrutto dalla guerra, l’altro dalla vittoria (…) I migliori erano mossi dalla
preoccupazione per lo stato, molti dall’attraente prospettiva della preda, altri dalla precarietà della situazione personale. Così buoni e
malvagi, con motivazioni diverse ma con pari intensità, volevano tutti la guerra (…)
Non sembrava che fossero davanti all’Italia e al suolo della patria: bruciavano, devastavano, saccheggiavano quasi si trattasse di un
litorale straniero e città di nemici, con esiti tanti più terribili, perché da nessuna parte si erano apprestate difese contro possibili
pericoli. Tutti erano a lavorare nei campi e le case erano aperte; accorrevano i proprietari, accompagnati da mogli e figli, nella
sicurezza della pace, ed erano travolti dalla violenza della guerra (…) Disseminati per i municipi e le colonie, i Vitelliani
saccheggiavano, rapinavano, tutto insozzavano tra violenze e stupri d’ogni genere (…) Non mancò chi, approfittando della divisa
indossata, assassinasse nemici personali (…)Nelle province risuonava dunque il fragore per l’allestimento di navi, di soldati, di armi,
ma nulla le prostrava tanto quanto la requisizione di denaro: denaro che sarebbe il nerbo della guerra civile, stando alle ripetute
affermazioni di Muciano, che non guardava al diritto o alla giustizia nelle procedure di esproprio, ma alla sola consistenza dei
patrimoni. Le delazioni non si contavano e i più ricchi venivano tratti in giudizio a scopo di preda. Tali abusi gravi e intollerabili, ma
giustificati nell’emergenza della guerra, continuarono anche in tempo di pace: non che Vespasiano, nella prima fase del suo
principato, fosse senza freni in queste operazioni ingiuste; ma in seguito, con l’indulgenza della fortuna e la lezione di perversi
maestri, imparò come comportarsi ed allora osò. Muciano contribuì alla guerra anche con beni personali, prodigo del suo patrimonio
perché non finiva mai di attingere alle casse dello stato (…)Il popolo assisteva da spettatore ai combattimenti, come nei duelli del
circo, sostenendo con grida e applausi gli uni o gli altri. Quando una delle due parti cedeva, mentre pretendeva che fossero tirati fuori
e finiti quanti s’erano acquattati nelle botteghe o rifugiati nelle case, faceva man bassa della maggior parte della preda. Coi soldati
intenti al sangue e alla strage, le spoglie delle vittime finivano alla plebaglia. L’aspetto della città era tremendo e ripugnante insieme:
da un lato scontri e ferite, dall’altro gente nei bagni e nelle taverne (…) Si respirava un cinismo disumano (…) Tutti esultavano e
godevano, indifferenti a quale parte vincesse, lieti della sventura di tutto lo stato (…) I vincitori, armi in pugno, davano la caccia ai
vinti, per la città, con odio implacabile (…)Questa ferocia, finché l’odio era fresco, trovava sfogo nel sangue; poi finì l’avidità in
preda (…) Succedeva anche che i plebei più indigenti e gli schiavi peggiori denunciassero, di loro iniziativa, i ricchi proprietari; altri
erano segnalati dagli amici (…) I capi (…) apparivano incapaci di controllare la vittoria, perché nel torbido delle discordie maggiore
è l’influenza dei peggiori, mentre la pace e l’ordine richiedono doti e capacità.
Memorie d’oltretomba (F. de Chateaubriand)
Il cinismo dei costumi, annientando il senso morale della società, riporta in essa un nuovo tipo di barbari: i barbari della civiltà, fatti
come i Goti per distruggere, ma che non hanno come essi la forza di creare: enormi fanciulli di una natura vergine questi, aborti
mostruosi quelli (…) Danton, nel bozzolo della sua chiesuola (…) organizzò gli eccidi di settembre. Bullaud di Varennes propose di
dar fuoco alle prigioni e di bruciarvi quanto vi era dentro; un altro convenzionalista consigliò di annegare tutti i detenuti; Marat si
dichiarò per un massacro generale (…) Danton disse: “Me ne infischio dei prigionieri” (…) Danton (…) diceva: “Noi non
giudichiamo il re: lo uccideremo”. Diceva altresì: “Questi preti, questi nobili non sono per nulla colpevoli, ma devono morire perché
sono fuori luogo, ostacolano l’evoluzione degli eventi e sono d’impaccio all’avvenire”. Parole che (…) presumono necessariamente
che l’innocenza non è nulla e che l’ordine morale può essere avulso dall’ordine politico senza provocarne la fine, il che è falso (…)
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