In casa della contessa si erano tramati i grossi colpi di borsa, sorrisi
in principio dalla volubile dea, allettamento incoraggiante a più
formidabili operazioni, meno felici da prima, disastrose più tardi,
quando furono ingrossate per l’impazienza di riguadagnare
rapidamente le somme perdute.
L’oro usciva a fiotti dalle casse vaticanesche, che andavano man
mano riempiendosi di titoli, i quali franavano per la china del
fallimento nazionale colla violenza di una valanga alpina.
Il miracolo delle noci, mutate in foglie secche: Mobiliari, Generali,
Venete, Crédit, Industriali, Istituto Romano, Raffinerie, Risanamento,
Utilità, Omnibus, Immobiliari, ecc.
E con questi, i valori migliori, travolti dalla fiumana del ribasso,
deprezzati non solo per il discredito interno, per le crisi estere: la
greca, la portoghese, l’argentina, l’australiana, che avevan scossi i
mercati più solidi ed ottimisti.
Un Waterloo finanziario, che lasciava lungo strascico di fallimenti e
rovine, per molti anni irreparabili.
Colle banche e le società anonime, coll’obolo vaticano, le fortune
annientate di molte famiglie principesche, e modesti patrimonî della
borghesia a centinaja perduti.
Ferretti, l’abile, l’infallibile dall’occhio di lince, dalla seconda vista,
sdegnato contro sè stesso per non essersi arricchito sulla rovina
generale, scampato a mala pena al disastro universale, meditava la
rivincita. La passione del giuoco, la febbre delle speculazioni, la
libidine del rapido guadagno lo avevano acciecato ed usciva egli pure
malconcio dal naufragio, furente di non aver saputo appropriarsi
almeno i rottami dei disastri altrui.
La contessa Marcellin, più abile, aveva raccolte le briciole del
banchetto nei giorni lieti e, previdente fra la follìa altrui, si era
arrestata prima che la mano dell’angelo scrivesse le fatidiche parole
di maledizione:
Mane — Tekel — Phares!