una vituperata. Non c'è nemmeno una rassomiglianza lontana, o
nella vita, o nelle opere, tra i due demolitori dei romanzi
cavallereschi. Il Cervantes, soldato valoroso, storpiato a Lepanto,
schiavo dei mori, è dignitoso nella miseria del suo mantello
stracciato, mentre il Tassoni, servo di principi, impiegato di cardinali,
è querulo ed amaro lamentatore della Sua povertà mal celata dal
saio del cortigiano o dalla veste talare dell'ecclesiastico. Il Don
Chisciotte non è solo un assalto ad un genere letterario invecchiato,
ma proposizione di una letteratura nuova, più umana e più vera. La
Secchia invece è negativa affatto, nuova solo nella parte formale,
scherzo, bello certamente, ma scherzo soltanto.
Perchè io non riesco a scoprire i riposti intenti civili e morali che
alcuni videro nella Secchia rapita, non parendomi da ciò nè i tempi
nè il poeta. Ci fu chi, vedendo intenti simili un po' da per tutto, disse
che se i contemporanei avessero inteso il Tassoni, il poema non
avrebbe potuto veder la luce. Altri, al polo opposto, negò, non solo
ogni seconda intenzione, ma ogni efficacia alla Secchia. I più,
tenendosi ad una via di mezzo, riconoscono qualche effetto, ma
negano l'intenzione.
Si disse per esempio che questi intenti civili sono dimostrati dalla
scelta dell'argomento. Il mettere in canzone una di quelle sciocche e
feroci guerre di città a città che insanguinarono il medio evo, era
mostrare i mali della divisione, la necessità dell'unione fra gli stati
italiani per cacciare lo straniero, era, si direbbe, precorrere al
Mazzini. Esagerazione. Dov'erano più, al tempo del Tassoni, le lotte
tra comune e comune, o anzi, dove erano i comuni, i Guelfi e i
Ghibellini, il potestà, il carroccio e sopra tutto dov'era la libertà? A
chi si rivolgeva egli, al popolo o ai principi? Al popolo no certamente,
poichè il Tassoni non lo capiva che come plebe, e del resto non ci
voleva gran testa per intendere che gli Italiani del seicento potevano
levarsi a qualche sommossa, ma ad una rivoluzione mai. E nemmeno
poteva rivolgersi ai principi, senza forze e senza volontà di scuotere il
giogo spagnolo. Avrebbe quindi predicato al deserto il verbo della
unità nazionale; ma il vero è che all'unità non pensava allora
nessuno, nè il Tassoni, nè il popolo, nè i principi, se pure nei torbidi